L'importanza di fare personal branding

L’importanza di fare Personal Branding

Contesto economico per il personal branding

A seconda dell’angolatura prescelta (mercato, consumatore, strategie competitive ecc.) e/o dell’ampiezza della stessa visuale (nazionale, internazionale, globale), i periodi-storici dell’economia sono stati differentemente denominati: “era del post-fordismo” (Vallas and Cummins, 2015) come anche “post-modernismo” (Baudrillard, 1981; Giddens, 1990), “knowledge economy” (Gandini, 2016), “sharing economy” (Pera et al., 2016 ), o “era del consumatore-to-consumatore” (Chen, 2013), giusto per menzionare solo alcune delle espressioni impiegate nella letteratura per spiegare il contesto in cui si inserisce e si confronta il personal branding. Quest’ultimo, da tema popolare dalla fine degli anni ’90 – grazie al già citato articolo di Tom Peters – è diventato un’industria di consulenza lucrativa e un grande genere editoriale (Hearn, 2008; Lair et al., 2005; Shepherd, 2005). Tutto ciò supporta alcuni autori (Rein et al., 2006: 27) quando affermano che l’attitudine verso il personal branding è “ben radicata nei settori dello sport e della politica, e sta crescendo rapidamente in business, religione, scienza, accademia e arte”, riconoscendone così la presenza fondamentale all’interno delle più moderne economie nel mondo.

Mercato del lavoro e personal branding

Nel corso del tempo, con l’aumento della volatilità dei mercati del lavoro, si sono diffusi lavori a “breve termine” o basati su contratti (Harvey, 2005). Questi cambiamenti hanno visto l’emergere di “sé intraprendenti” nelle culture organizzative (Du Gay, 1996), in cui i dipendenti vanno assumendo un orientamento più individualistico nel gestire le loro carriere, impegnandosi in pratiche di self-promotion e impression management al fine di garantirsi l’occupazione e la carriera conseguente  in ambienti di lavoro competitivi e sempre più volatili. Si assiste a un importante spostamento della responsabilità delle carriere dei dipendenti dalle organizzazioni alle persone (Arthur e Rousseau, 1996; Arthur, 2014; Greenhaus e Kossek, 2014), parzialmente giustificato dai cambiamenti nei modelli di business in settori tradizionalmente stabili, che sospingono i lavoratori ad abbandonare i posti di lavoro “sicuri” o che determinano massicci tagli dei posti di lavoro.Accanto a ciò, sempre all’interno delle organizzazioni, si assiste a un’incertezza occupazionale (Cederberg, 2017; Holton e Molyneux, 2017) cui si accompagna un incremento nel fabbisogno di competenze diverse, nonché un aumento delle “carriere all’interno del portafoglio” delle organizzazioni (Gandini, 2016). InoltreEdwards (2005) sottolinea che nelle grandi organizzazioni i dipendenti divengono una caratteristica costitutiva – e per alcuni distintiva – dell’employer brand quale “entità animata”, raggiungendo e interagendo direttamente con la clientela, soprattutto nell’ambito dei servizi (Pettinger, 2004). Numerosi studi confermano queste osservazioni, rivelando come i dipendenti accettino di incarnare il brand come parte preponderante della propria esperienza lavorativa quotidiana (Brannan, Parsons e Priola, 2011). Infine, se da un lato gli employer brand abbracciano il digitale, determinando l’emergere di nuove pratiche come, ad esempio, il cyber-vetting (Berkelaar , 2014), dall’altro, la crescente facilità di comunicazione sul web e i numerosi social media fanno sì che “le carriere diventino marchi personali che devono essere gestiti in un’era sempre più virtuale” (Gioia et al., 2014). Ciò può realizzarsi attraverso “meccanismi di segnalazione della reputazione all’interno di piattaforme di condivisione” (Abrate e Viglia, 2017: 4) in presenza della frequenza nella transizioni di carriera. La gestione efficace della propria immagine come profilo di LinkedIn (van der Land et al., 2016) per l’ottenimento di maggiori colloqui di lavoro o attraverso una generalizzata creazione ed espansione di nuove reti di contatti per attività di re-branding personale (Schlosser et al., 2017) è sempre più frequente nei percorsi di carriera.

Sociologia, consumi e personal branding

Dalla postmodernità di Baudrillard (1981) – secondo cui gli oggetti di consumo sono segni presenti nella cultura, poiché vengono consumati per i significati che forniscono ai consumatori – si giunge alla centralità del consumo nella produzione di identità, concetto basilare della teoria della Consumer Culture Theory (CCT) (Arnould e Thompson, 2005), secondo la quale i consumatori si appropriano dei significati simbolici delle risorse del mercato (come prodotti, marchi e pubblicità) per produrre i loro progetti identitari. Ciò spiega, in buona parte, l’emergere della cosiddetta “cultura delle celebrità”, in cui tutti appaiono coinvolti nella produzione o nel consumo di celebrity (Rein et al., 1997). Alimentato dal richiamo delle celebrità su larga scala (Thrall et al., 2008: 363-364), si afferma l’esistenza di un “mercato delle celebrity” evidenziato dalle classifiche annualmente realizzate da Forbes (la lista dei  “Celebrity 100”), che ordinano il valore multi-miliardario di tali brand: Ellen DeGeneres, David Beckham, Kim Kardashian e Justin Bieber sono alcuni esempi (Forbes, 2017). Le celebrity non solo divengono brand da consumare, ma sono persone da imitare, emulare, con l’intento di farli propri per comportarsi come loro e diventare loro. Il culto della celebrità appare strettamente legato al crescente imperativo di ottenere visibilità personale (Rein et al., 1997) e il personal branding diviene un dispositivo per attirare l’attenzione, una  chiave per aiutare gli “aspiranti professionisti” a ottenere un vantaggio competitivo in un mercato affollato. Questo comportamento connesso al “fare rumore-fare notizia” (Thrall et al., 2008: 364), quindi, non è più solo applicato da personaggi pubblici noti, ma si riscontra anche per un una serie più ampia di micro-celebrità che hanno indotto la gente comune a impiegare sovente una logica auto-centrica di spettacolarizzazione e visibilità. Certo, non è un fenomeno nuovo: la visibilità individuale è stata molto studiata, specialmente in relazione alle nozioni di fama e celebrità (ad esempio Gamson 1994, Holbrook 2001, Carducci 2004).

Costruire la visibilità individuale e un’immagine pubblica in una società in cui sussistono divario generazionale e nuovi stili di vita (Harris e Rae, 2011), è possibile anche per la “persona comune” (Eagar e Dann, 2016). La natura auto-centrica e la forte attrazione verso le celebrità accrescono il fabbisogno di self-promotion, sia sul lavoro che nella vita privata. La costruzione della narrativa e dell’immagine di sé si sviluppa attraverso “l’uso di significati e immagini culturali tratte dai codici narrativi e visivi delle industrie culturali tradizionali” (Hearn 2008: 198). Promuovere e marcare il sé è diventato un fenomeno normale e accettato nella vita delle persone comuni che seguendo gli esempi di self-promotion delle celebrità, modellano le loro identità online per guadagnare popolarità e auspicabilmente raggiungere riconoscibilità e connessioni. Facendo una ricerca sul consumo dei social media/YouTube, Chen (2013) ha scoperto che le persone normali, che utilizzano i social in modo amatoriale, stanno via via adottando i social media con obiettivi più o meno consapevoli di personal branding.

Tecnologia e digital transformation per il personal branding

C’è un consenso diffuso sul fatto che il principale fattore che sospinge il personal branding sia rappresentato dalla facilità di accesso alla tecnologia e, in particolare, al web partecipativo (Harris e Rae, 2011; Holton e Molyneux, 2017). Del resto, gli spazi per e i momenti dedicati a produzione e consumo di oggetti e persone sono notevolmente cresciuti proprio grazie all’evoluzione del digitale  nonché all’ubiquità dei dispositivi portatili abilitati alla connessione internet (Marwick, 2013). Diversi studi rivelano che i consumatori sono attivamente impegnati in pratiche di self-presentation e nell’impression management online per produrre e gestire la propria identità (Labrecque et al., 2011; Marwick, 2013; Schau & Gilly, 2003; Van Dijck, 2013; Hackley et al., 2018). Belk (2013) spiega che i “sé digitali” dei consumatori sono identità importanti da gestire e concetti autonomi da esplorare e studiare nei contesti virtuali. L’accessibilità di queste tecnologie per la creazione di visibilità non ha solo creato una cultura del consumo visivo (Schroeder, 2002) e la produzione di immagini di consumo (Eager e Dann, 2018; Hackley et al., 2018), ma ha anche democratizzato la produzione di massa di celebrità come una forma di business finalizzata al marketing personale (Turner, 2004: si tratta di ciò che Kerrigan et al. (2011) denominano come “celebrazione del sé”. Infatti, così come affermano Pera et al. (2016: 45), “se una volta la reputazione personale era considerata cruciale per celebrità e politici, gli strumenti online hanno permesso alla reputazione personale di diventare un’importante attività di marketing per la gente comune”. Le competenze dei media digitali diventano un ulteriore modo per modellare l’identità di marca, tanto da far nascere l’online personal branding (Labreque et al., 2010) o il personal digital branding (Kleppinger e Cain, 2015) perché tutto ciò che viene trovato online fornisce un’impronta digitale come una marca (Lampel e Bhalla, 2007; Madden et al., 2007)  e attiva self-marketing tramite le piattaforme di social media, cercando di mostrare la personalità professionale di un individuo. Sfruttando l’effetto megafono di queste nuove tecnologie web le persone comuni possono generare un pubblico di massa senza ulteriori mediazioni (McQuarrie et al., 2013). Ne risulta accresciuto il potenziale collaborativo e dialogico facilitando uno spostamento verso la cultura partecipativa (Jenkins, 1992, 2006), in cui l’equilibrio comunicativo tra produttori e destinatari viene rielaborato in modo tale che i consumatori non siano più utenti passivi ma divengano attivi nel loro ruolo di costruzione di content e di producer (Bruns and Jacobs, 2006). L’identità diviene un prodotto da far consumare e scambiare con gli altri, rivolgendosi e interagendo con il pubblico come se fosse una base di fan o di follower.

Molta attenzione va però posta sul fatto che se da una parte la tecnologia facilita il personal branding, dall’altra rende anche più difficile differenziarsi in un “ambiente mediatico iper-saturo” (Ottovordemgentschenfelde, 2017: 65). È necessario, infatti, che il personal brand si alimenti continuamente in modo sempre più articolato attraverso scambi, interazioni, dati e informazioni da e per i diversi pubblici, “gestendo attivamente e in modo continuativo” la presenza online e cercando anche di ridurre al minimo l’impatto di qualsiasi elemento negativo del mondo digitale che possa danneggiare la reputazione e il brand personale. La possibilità e la velocità di reagire a queste minacce significa sapere “effettivamente gestire, controllare e manipolare i dati” (Harris e Rae, 2011).

Infine,  per  costruire un’immagine in grado di perdurare o modificarsi nel tempo, si dovrà ricorrere allo storytelling incentrato sulla persona considerando che l’obiettivo ultimo del personal branding è proprio quello di  creare e rafforzare un legame emotivo duraturo rendendo immediatamente riconoscibile, memorabile e autentica la propria marca, in quanto in grado di  riflettere tratti, valori e comportamenti del pubblico cui si rivolge.

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